Hong Kong / 3. A Symphony of Lights

inserito il 9 Novembre 2011
0 commenti

Scrivo da un locale chiamato Muse, lungo la terrazza a sud di Kowloon – da dove si ammira lo skyline di HK.
HK è bellissima
. Ero lì, seduta a guardare mentre il cielo da grigio diventava sempre più scuro.
I grattacieli aprivano le danze, una sorta di richiamo al calare della notte: prima uno poi l’altro iniziavano il preludio dei giochi di luce (La Synphony of Lights), quasi in sordina.

Sembravano chiamarsi l’un l’altro, invitavano a partecipare ad un gioco.
Da Kowloon HK ti affascina – allungata a perdita d’occhio tra la collina tropicale e il mare che la separa da Mainland, è una foresta di grattacieli – ognuno dei quali sembra avere una propria identità (i nomi dei palazzi sono indicati in tutte le mappe). E’ unica eppure ti ricorda un’altra isola, dall’altra parte del mondo, Manhattan: con i suoi grattacieli e con il suo magnetismo.

Sono simili e diverse. Nel clima. Nella struttura geografica. Nel modo in cui vengono vissute.
Stamattina ero in uno Starbucks (per la verità un fac-simile, stavolta) in Stewart Road, prima della pedestrian che porta al China Resources Building; c’erano degli inglesi a fare colazione.
Li sentivo parlare e mi è sembrato così chiaro perché scelgono di essere qui. Non è solo questione di soldi, è piuttosto l’atteggiamento che differenzia HK da Londra o da New York. Un atteggiamento culturale che è un retaggio del periodo coloniale.

Come che sia, a HK si vive l’evoluzione di quello che è stato il colonialismo, e gli inglesi (ma in generale gli occidentali) ci si ritrovano come il pesce rosso dentro l’acqua.
Basta leggere i libri della Blixen per capire.

L’essere bianchi e vivere / lavorare /qui ti conferisce uno status e crea una sorta di fratellanza, come era una volta per i bianchi che abitavano nelle colonie. C’è un legame, una relazione che lega chi abita qui – esattamente come accadeva in passato: il fatto di condividere un’esperienza che viene percepita come “di frontiera”.

Stamattina ho pranzato in un ristorante chic (Bettys) nell’IFC.
Tutti i tavoli erano riservati. Arrivava la classe dirigente (finanza), tutti ben vestiti, tutti con lo stesso sorriso da élite di potere. Li accomunavano i gesti, il modo di fare, la consapevolezza di avere scelto di stare lì per i vantaggi che questo garantisce: bei locali costruiti su misura, dove possono vivere l’appartenenza al grande circolo dei colonialisti, bei negozi, begli uffici in grattacieli affacciati su Victoria Bay, la stessa lingua: un habitat perfetto in cui si inseriscono ormai anche gli eletti (con fior di titoli di studio, almeno 5 lingue parlate correttamente, e borsetta Prada) tra gli indigeni, che assumono di riflesso lo stesso atteggiamento. Quello di chi vive, in una colonia lontano da casa, una vita da upper class che non sarebbe così scontata a Londra o a NYC.

La mia tesi è che qui gli occidentali siano meno soli di quanto possono essere in altre grandi città, perché beneficiano dell’appartenenza ad un’élite culturale (in un’accezione marcatamente “etnica” e di business).

Tutti quelli a cui l’ho chiesto mi hanno detto che qui stanno bene. Io penso che sia perché hanno ricavato un proprio posto in una club di persone accomunate non da una passione, ma dal fatto stesso di essere/lavorare qui.

Perché non accade lo stesso a Bangkok, o a Saigon, o a New Delhi? In realtà succede, ma in scala molto ridotta, e tendenzialmente occorre essere più avventurosi. Come Luca ha detto ieri, qui sono “civilizzati” – ossia i 99 anni di dominazione britannica hanno lasciato il segno.

E’ in realtà molto simile a quanto ho osservato anni fa a Dubai, con la differenza che negli Emirati il clima rende impensabile il viverci a lungo, mentre qui c’è quel sentore di tropico che mi fa venire in mente la descrizione di Marguerite Duras della pelle della protagonista di “L’amante della Cina del Sud”– resa morbida dai monsoni e dall’umidità.

L’internazionalità della comunità, ossia il guazzabuglio di etnie che parlano inglese, rende la cosa ancora più affascinante (e ovviamente ancora più vicino al modello coloniale).

Insomma: HK è una sorta di club vela, in cui risulti automaticamente membro se sei bianco, ambizioso e se lavori nel business. Deroghe ammesse ma rigorosamente per merito.
// Stamattina ero terrorizzata dall’idea di non riuscire ad ottenere il visto per Shanghai. Alla fine ho capito come funziona, ma sono stata un’incosciente (come sempre in questa materia quando viaggio).
In pratica esiste un palazzo chiamato Chinese Resources Building in cui è possibile mettersi in fila (consigliato prima dell’apertura), e richiedere il visto. Ci sono 3 tipi di urgenze… ordinario, consegna in 3 giorni, consegna in 1 giorno. Nel caso di consegna in 1 giorno, significa… 24 ore dalla richiesta e ovviamente più soldi.
Orari di apertura 9-12 e poi altro orario nel pomeriggio.
In alternativa, per i casi disperati come il mio esiste una postazione in Aeroporto, al Terminal 1, agli arrivi. E’ un’agenzia che si occupa di farti il visto, ed è in grado di ottenerlo in 5-6 ore.
Fabio Sonora mi aveva detto di questa agenzia, ma stupidamente non mi sono fermata all’arrivo / sarebbe stato molto più comodo e mi avrebbe evitato l’angoscia / sicchè ho dovuto andare in aeroporto e tornare, poi riprendere lo zaino e portarlo in quella schifosa guest house in cui mi tocca dormire / Princess Niagara si rifiuterebbe categoricamente /.

Domani alle 5.30 prendo il primo bus A 21 per l’aeroporto, acchiappo il passaporto con il visto e se tutto va bene sono sull’aereo per Shanghai alle 8.30.

In compenso sono stanchissima. Ho prenotato a Shanghai un albergo che mi ha consigliato Federico Morgantini, autore del libro www.unitalianoashanghai.it
che è stato gentilissimo.

// Girovagando per i Mall (dove appunto non è possibile non entrare, perché le pedestrian walk ci passano in mezzo), mi sono imbattuta in un negozio molto bello, all’IFC, solo borse e scarpe di varie marche, molto selezionate. Bellissime delle René Caovilla, devo dire che mi è piaciuto molto di più della collezione di Jimmy Choo e anche di Manolo Blanik.
Mi è piaciuta tantissimo una (per la verità due) borse di Miu Miu; chi volesse suggerire al mio socio cosa regalarmi a Natale ha i miei più sentiti ringraziamenti.
Mi ha deluso invece Prada, anonima, sembra Chanel.

Detto questo, considerata l’alta esposizione  a negozi monomarca e brand, sono legittimata a dire che mi hanno stufato. Zara ed H&M in testa a tutti, trattasi di appiattimento verso il basso, uniformità… mancanza di stile (il proprio), perché ormai tutti fanno tutto.
In molte collezioni di grandi brand non si capiva nemmeno il target di riferimento (forse è commercialmente scomodo).

Le persone sono vestite tutte uguali.  A parte Vuitton e Chanel, che mi sono rifiutata di guardare, e a parte il caso di Miu Miu e forse di qualche brand che cerca vie alternative, tutti fanno le stesse borse stile bon-ton.
Comincia ad avermi stufato anche Jackie Onassis.

Viva la Baronessa Blixen, viva gli eccentrici, viva i ricercatori, gli esploratori. Mi viene il prurito solo a pensare alle targhe con i marchietti appiccicate ovunque.

Devo recuperare il nome della stilista cambogiana che mi piace tanto.

Dalla mia analisi e confronto di prezzi con vari e-commerce, risulta comunque che, nonstante qui non tassino i beni di lusso, comprare è sempre più caro che in Italia. La carta di credito è salva.

// Merita assolutamente vedere A Symphiny of Lights, la danza di luce a ritmo di musica dei grattacieli. Vista da Kowloon è uno spettacolo.

categoria: // Backpack

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.